Tutti i pensierini.

Pensierino di Settembre 2023

Italiani a tavola

Il tema è uno di quelli che mi appassionano perchè sono un appassionato del mangiare e del bere. Su cibo e bevande, vezzi, vizi e sfizi ho scritto già diversi pensierini, il più importante e serioso dei quali è probabilmente quello dedicato alla vexata quaestio del vegetarianesimo e del veganesimo (marzo 2017). Questo ce l'avevo in canna da un po', e a farmi esplodere il colpo ci ha pensato una discussione sulla moda dello (ma ormai degli, viste le innumeri varianti) Spritz, e sulla superiorità del Vermouth rispetto al Prosecco (cosa che a leggerla così sembra un nonsenso ed infatti è un vero e proprio nonsenso, confermo in pieno l'affermazione inizialmente data in forma dubitativa).

Dunque parlerò dell'atteggiamento per lo meno discutibile degli italiani rispetto al cibo e alle bevande.

Devo ammettere che sull'argomento sono un esperto per esperienza diretta: la buonanima della mia mamma era una specie di summa teologica di tutte le storture ed i difetti di cui tratterò,nonostante fosse una discreta cuoca (ma quale mamma non lo è?) per tradizione più che per disposizione naturale. La mia nonna, la sua mamma, era infatti una vera cuoca: imbandiva pranzi a matrimoni ed altre celebrazioni agresti popolari e popolane, pasti fastosi e pastosi e bucolici, nella campagna tosco-umbra della prima metà del secolo scorso. Cuoca richiesta ed acclamata dalle famiglie che potevano permettersi il lusso se non di remunerarla economicamente almeno di ricambiare fornendo lavoranti nei momenti più pesanti dello strano calendario agricolo, fatto di periodi caotici e faticosi ed altri forzatamente oziosi.

La mamma, migrata per fame con papà nella Liguria della metà del secolo scorso, era un incredibile ed incrollabile baluardo della superiorità della propria esperienza rispetto a quella del resto del mondo. Per settant'anni ha mangiato, a Sanremo - impresa che era e rimane quasi funambolica - pane senza sale, convinta della insuperabile bontà del pane toscano, una delle cui caratteristiche è appunto di non avere sale nell'impasto -rispetto alle migliaia di varietà e gusti, di sfumature di consispanetenza, croccantezza, morbidezza, fragranza, profumo che questo alimento base può presentare. Niente. Non c'era cristi (come diceva lei): l'importante era che non avesse sale.

Nei primi anni, quando ero bambino, c'era un astuto produttore di pane industriale di Altopascio (provincia di Pistoia) che spediva il suo prodotto in tutta Italia, un pane che in effetti somigliava se pur di lontano a quello che si faceva in campagna, in pagnotte farinose e sciape, che può piacere o non piacere ma ha un suo carattere ben preciso. Ma poi il produttore di Altopascio smise di consegnare a Sanremo (probabilmente una sola cliente non era situazione economicamente conveniente). Da allora, e fino a due anni fa, papà (fin quando c'è stato) poi noi figli e nuore varie siamo stati costretti ad un supplizio di prenotazioni e ritiro di pane senza sale preconfezionato in comoda confezione plastica, naturalmente preaffettato, alla Conad o alla panetteria fidata del momento. Un pane che non era neanche lontano parente di quello della campagna toscana e della sua gioventù. Ma era (ed è) senza sale. Una vera follia.

Il pane scipito della mamma è per me una specie di totem negativo, ma non è l'unico. Altra caratteristica deteriore nell'atteggiamento verso il cibo della povera Dina che spero non si rivolti nella tomba per mia causa era la diffidenza verso la novità, l'atteggiamento negativo preconcetto verso ciò che non è usuale, e le affermazioni apodittiche del tipo "a me il pesce non mi piace" dichiarate senza possibilità di discussione. "Il pesce non mi piace", ma poi il baccalà (ingrediente di tante ricette popolari anche nella cucina rurale), o il tonno in scatola erano ingredienti abituali nella sua cucina. E naturalmente diceva "Ma il baccalà non è pesce", con affermazione che riteneva ovvia. Altra ovvia eccezione era il pesce di fiume (perchè il fiume passava a cento metri da casa sua, in Toscana), che cucinava ogni tanto. Un filetto di trota in padella, o una trota al forno: l'unico pesce che conosceva e cucinava fresco.

Ricordo una volta che su mia insistenza (incuriosito, le volevo assaggiare) cucinò delle cozze al forno, con aglio e prezzemolo; vennero un po' troppo secche, ma buone. Le fece odiare a tutta la famiglia dicendo che facevano schifo. Non ho più mangiato cozze finchè sono andato a vivere per conto mio. Amo le cozze. Ricordo anche che per puro amore filiale nei miei confronti (ma anche per atavica abitudine ad utilizzare in cucina ciò che veniva gratuitamente, tipo i funghi) cucinava mal volentieri i polpi che qualche volta portavo a casa dalle nuotate estive. Li metteva a bollire per poi condirli in insalata con abbondanti patate lesse, aglio e prezzemolo e olio e aceto a sfare. Li bolliva con una quantità tale di aromi nell'acqua (alloro, sedano, carota, prezzemolo, aglio, cipolla, grani di pepe e abondante aceto) che il polpo alla fine non sapeva assolutamente più di polpo. Mentre il mollusco era nell'acqua bolcozzelente lei spalancava porte e finestre affermando che "quell'odor di pesce" le dava fastidio. Di tutto c'era odore tranne che di pesce, naturalmente :-(

Chiudo il capitolo mamma, traslando questi ingombranti ricordi della sua memoria più in generale all'italiano medio che, per quanto lo conosco, mostra esattamente questi stessi difetti se pur in misura ed esplicitazioni diverse. I primi due difetti, che riassumo con i termini di provincialismo e campanilismo, sono probabilmente facce diverse dello stesso atteggiamento, ed hanno una diffusione incredibile. Anche qui mi rifaccio ad esempi esperienziali della mia ormai lunga e (a)variata esistenza in vita.

Ricordo i primi viaggi con Maddalena in vari paesi del mondo, pieni di curiosità ed apertura mentale mai acritica rispetto a cio che vedevamo, alle persone che incontravamo e, perchè no, a quel che mangiavamo e bevevamo. In Grecia, a Sri Lanka, nella sterminata Indonesia così varia, in India, a Cuba, in molti paesi d'Europa, solo per citare le nostre prime mete, seguite nel tempo da molte altre. E poi ci trovavamo nei viaggi di ritorno verso l'Italia, ancora ebbri ed entusiasti delle esperienze fatte, circondati da gruppetti di italiani che l'unica cosa che aspettavano era di toccare il territorio nazionale perchè, al bar dell'aeroporto, dovevano prendere il caffè. Con facce estasiate davanti alla tazzina fumante li vedevi godere ed esclamare (e spero che almeno qualcuno di loro lo facesse per allineamento ed adeguamento comportamentale al gruppo e non per profonda convinzione) che meno male c'era il caffè italiano. Aspettavano solo la spaghettata serale, di volta in volta al pomodoro o ajoeojo, per stare di nuovo bene.

Questo è il provincialismo, l'incapacità ad aprirsi e a considerare positivamente ciò che avviene nel mondo fuori dall'Italia. Ma togliendo il riferimento ai viaggi all'estero e guardando cosa ci succede intorno, questo fenomeno ha un nome anche più preciso: campanilismo, ossia ritenere qualunque cosa, nella tua nicchia ecologica, migliore di tutto quello che succede "fuori". Il tuo paesello è il più bello d'Italia, e come lì non si mangia (e non si beve) da nessun'altra parte. Affermazioni assolutamente acritiche, tipo "I carciofi di Sanremo sono i migliori del mondo" "i pomodori di Bari non hanno uguali neanche a Pachino (figuriamoci a Pechino)" "Io mangio solo zucchine trombette di Albenga, le altre mi fanno schifo (sic!)", Affermazioni peraltro facilmente demolibili, basta provare. Credete che qualcuno sia in grado di distinguere i gamberi di Sanremo (o pretesi tali), pagati 70 euro al chilo, da quelli del banco pesce del supermercato? So per certo che non è così, anche perchè spesso sono esattamente lo stesso prodotto. Ho visto con i miei occhi al porto di Sanremo attraccare vetusti e malandati pescherecci il cui misero equipaggio non aveva ancora finito di scongelare bene le cassette di "gamberi di Sanremo" comprate all'ingrosso la sera precedente, prima di uscire in mare. Stranamente, nel banchetto allestito al molo vecchio, avevano pochissimo pesce fresco, ma intere casse di gamberetti rossissimi ed invitanti. Di pesce fresco purtroppo non ce n'è più per questi poveretti, e comprendo il fatto che prendano per il culo i boccaloni che gli comprano i gamberi surgelati, fanno solo bene.

Citerò inizialmente in prevalenza esperienze dovute alla nostra recente frequentazione ligure, ma laddove l'orgtrombetteoglio culinario è più alto più alte sono le esagerazioni campanilistiche, e qui devo dire che l'orgoglio e il campanilismo culinario non difettano :-)

Una delle cose che ci ha sempre stupito è che nel ponente ligure il concetto di "zucchina" coincida in pratica, per la maggioranza della popolazione ma sicuramente tra chi si ritiene buongustaio, con la zucchina lunga di Albenga (cultivar di Cucurbita moschata per chi volesse rintracciarne le origini botaniche), localmente chiamata "trombetta". Addirittura la cultura popolare distingue tra queste zucchine e tutte le altre, cui ci si riferisce genericamente con il termine spregiativo di "pegulassi" (vedi figure per un riconoscimento visivo). Ora, io posso concordare che se devo mangiare una zucchina bollita e condita con un po' di olio e sale preferisco una trombetta di Albenga ad un'altra zucchina, ma so per certo che ci sono alcune ricette che risultano migliori con i volgari "pegulassi" che con le nobili "trombette", per averlo provato, e come anche i superfan delle trombette hanno ammesso. Ma non è solo questo il punto, è che se mangi solo trombette di Albenga semplicemente ti perdi ciò che di buono si può fare con le altre zucchine. Qui si scivolerebbe su un'altro vizio, che è l'abitudinarietà nel cibo, ma sorvoliamo e contipegulassinuiamo sul campanilismo.

Torniamo però brunottianamente abbombazza sul resto d'Italia. Il campanilismo becero e aprioristico non è certo monopolio del Nord-Ovest, ma la fa da padrone su tutto il territorio nazionale, e al Sud-Est non sono da meno. Anche qui naturalmente mi rifarò ad esperienze personali, che spero rappresentative, derivate dal territorio appulo-lucano frequentato per ragioni matrimoniali.

Visto che ho citato mia madre, non posso per par condicio che citare anche mia suocera, donna sicuramente di cultura ed apertura mentale notevolmente superiori alla consuocera ma che in questo campo aveva anche lei le sue convinzioni strampalate. Essendo di Matera, ma avendo molti parenti "al Nord" per le stesse ragioni migratorie che costrinsero la mia toscanità a divenire liguritudine, mia suocera se doveva inviare un omaggio dalla sua terra ai parenti emigrati mandava una bottiglia di "Amaro Lucano". Alla mia osservazione che l'Amaro Lucano si trovava anche alla Conad di Cernusco sul Naviglio (e a cercare bene anche in qualche supermercato ben fornito di Eindhoven) lei rispondeva che "Sì, ma questo arriva da Matera". Chevvuofà? Una delle rarissime volte, forse l'unica, che ci venne a trovare nella nostra casa di Ciriè, troppi anni fa, provammo a proporre una bagna cauda, come esempio di cucina di territorio. Senza neanche annusarla, sapendo che era a base di aglio (ingrediente peraltro non estraneo alla sua cucina) si rifiutò categoricamente anche solo di assaggiarla per dire "non mi piace". Questo è un atteggiamento molto comune: ci sono i fagioli? no, grazie, non mi piace! C'è il sedano? Perlamordiddio!

Per i materani il pane di Matera è il massimo della libidine gastronomica (come se un pane potesse esserlo), ma natmaterauralmente gli altamurani (Altamura è una piccola città che dista meno di 20 Km da Matera) sostengono che come il pane di Altamura non ce n'è. Questioni di marketing hanno fatto vincere ad Altamura per lo meno a livello mediatico la sfida tra i due pani. Ma non lo dite ad uno di Matera: non lo ammetterà mai, neanche sotto una tortura medievale tipo estirpazione ungueale con pinze arrugginite ed infette di tetano. Naturalmente nessuno di noi e di voi sentirebbe mai alcuna sostanziale differenza tra un buon pane di Altamura ed uno di Matera, ma su queste piccole sfide si fonda il campanilismo profondo, l'autoillusione semplicistica, la convizione basata sul nulla e supportata dal niente che ahimè è la base di molti dei nostri problemi a livello nazionale. E non proseguo con le considerazioni di altro livello, ma non posso promettere di non tornarci più tardi.

Mi fermo dunque qui col provincialismo e il campanilismo, e passo al secondo grande tema che affligge, anche in questo campo, il popolo italiano: l'incultura e la paura della conoscenza (che della cultura è la base). Direste mai che un cocomero è meglio di un'anguria? Forse no. Ma se l'anguria al vostro paese si chiamasse cocomero probabilmente sareste disposti a scommettere che un cocomero è meglio di un'anguria, e a negare che siano la stessa cosa. Se diceste a un barese che le cime di rapa a Napoli si chiamano friarielli, secondo voi ci crederebbe? NO! e sicuramente un barese mangiando alla pizzeria "Da Esposito" in centro a Bari un calzone salciccia e friarielli non ammetterebbe mai che quella robba è la stessa che usa per fare gli strascinati con le cime di rapa. Si strascinerebbe le vesti, e spergiurerebbe sulla memoria di tutti i suoi predecessori scomparsi che i friarielli non saranno mai cime di rapa. E che comunque le cime di rapa di Bitonto sono tutt'altra cosa da quelle di Fasano e di Bitetto (non parliamo di Binetto e Bitritto, lì proprio le cime di rapa non le sanno coltivare). Perchè l'ignoaltamuraranza è un'altra delle piaghe che piagano (ripetizione voluta) un territorio a livello culinario sicuramente tra i migliori sulla scena mondiale.

Mi dilungo ancora sull'importanza della cultura gastronomica (che include quella enologica): la storia del secolo scorso ci aiuta a comprendere perchè ancora oggi nel paese sia così scarsa. Torno alle esperienze del primissimo e primo dopoguerra: la cultura popolare allora era vera e propria incultura, perchè la povertà diffusa fino a quel momento non aveva consentito approcci diversi.

Era l'epoca in cui nel ponente ligure si andava al ristorante/trattoria rare volte in un anno, d'estate, in gita nell'entroterra, a mangiare ravioli e coniglio per poi tornare a casa a poter commentare "discreti, ma certo che quelli che facciamo a casa sono più buoni".

Era l'epoca del vino buono solo se genuino: fatto a partire dall'uva (come se convenisse fare il vino in altro modo) pestato coi piedi dal contadino, acquistato sfuso in damigiana e imbottigliato in cantina. Genuino e perciostesso buono. Se andiamo a vedere non esiste alcun dizionario al mondo che dia "buono" e "genuino" come sinonimi, e questo uccide il sillogismo pseudoaristotelico.

Era l'epoca della scelta del ristorante basata sul numero dei camion a rimorchio (stelle Michelin ante litteram) fermi nell'ampio parcheggio: la fame atavica consigliava di seguire gli impliciti suggerimenti dei pantagruelici camionisti, che nella fantasia popolare notoriamente si abboffano di quantità indegne di cibo spendendo il meno possibile. Questa subcultura gastronomica ha ancora oggi suoi i campioni: chef Rubio si è conquistato una indegna fama seguendo i camionisti più ingordi nelle loro scorribande pappatorie.

Era l'epoca in cui il mondo della cucina si divideva in due categorie: quella ruspante e già citata dei ravioli-e-coniglio e quella esotica derivata dalla cinematografia americana fatta di penne vodka e salmone innaffiate da Dom Perignon millesimato. In mezzo, il deserto.

Fortunatamente molto è cambiato da allora, grazie a pochi pionieri del buon gusto, della cultura culinaria, della curiosità e sperimentazione in cucina e in cantina. Ma in Italia questi passi avanti sono ancora molto relativi, e riguardano uno strato piuttosto esiguo della popolazione che per inciso, a parer mio, non coincide con quello della fascia economica più abbiente.

L'ignoranza e l'incultura del nostro popolo (in questo settore) non aiutano l'eccellenza della nostra produzione a livello planetario. Non siamo buoni missionari della nostra cucina e dei nostri vini in giro per il mondo se siamo ignoranti e beceri, e sosteniamo che i formaggi francesi fanno schifo e quelli italiani sono il massimo. I formaggi francesi sono eccellenti: noi abbiamo imparato dai francesi a valorizzare i nostri formaggi e a fare vino buono, dobbiamo ammetterlo. Poi in molti campi li abbiamo superati, ed è sicuramente vero ed estremamente onorevole, ma dobbiamo saperlo e comunicarlo bene, sennò siamo quelle macchiette che slurpano gli spaghetti pummarola col risucchio facendo casino e suonando il mandolino (Cit: Il primo Fantozzi, 1975)

Ancora un vizietto diffuso, legato alla (in)cultura. La cultura c'è laddove c'è conoscenza, e la conoscenza scaturisce dalla voglia di sapere. Questo implica interesse per la novità, la sperimentazione, l'insolito e lo sconosciuto, con la consapevolezza che non tutto il nuovo sarà gratificante, e la conseguente accettazione di eventuali insuccessi. Il contrario è la riluttanza per la sperimentazione e l'innovazione, le autoconvinzioni apodittiche ed immarcescibili, tipo il già citato "Il pesce non mi piace". Come dire "Il mare non mi piace" o "Il cielo non mi piace". Non sta nè in mare, nè in cielo nè in terra. Eppure è un vezzo che, pur non essendo stucchevole come la finta celiachia che affligge ormai la maggioranza dell'alta società, è piuttosto diffuso, e, quando posto di fronte alla sfida della realtà, è spesso fomoussente di sincero divertimento o imbarazzo (fate vobis).

Una cara amica, che spero non legga mai questo pensierino pena la fine della nostra amicizia bleh , è una di quelle che il pesce mai e poi mai. Però, come mia mamma, fa eccezione almeno per il tonno, ma solo quello in scatola, ovviamente, mai fresco. Lei comunque invece è più coerente di quanto lo fosse la Dina, e il baccalà non lo mangia, perchè anche il concetto di "pesce" è un'opinione. Aperitivo con gli amici, avevamo preparato delle tartine con una mousse di tonno, una ricettina semplice ma sempre ben accetta da accompagnare con un prosecchino fresco. L'amica in questione assaggiando una delle tartine di tonno si scioglie in brodo di giuggiole e dice: buonissime! Ma come la fai questa mousse, dammi la ricetta. Penso che è una ricetta banalissima, ma visto il successo mi affretto ad elencare gli ingredienti. Tra questi, ahimè, per dare un po' più di sapore c'è anche un paio di filetti di acciuga. Al solo sentir nominare la parola "acciuga" l'amica ha un conato di vomito, esclama "Bleah!" neanche fosse il personaggio di un cartone animato di Walt Disney, e rifiuta categoricamente di mettere in bocca un'altra di quelle tartine che aveva ingurgitato entusiasticamente fino ad un attimo prima. Come se le avessi detto che l'ingrediente segreto era diarrea di topo di fogna morto due giorni prima per cancro intestinale.

Questo atteggiamento è meno infrequente di quanto che si pensi, magari non è un atteggiamento specificamente italiano (non ho vasta esperienza di psico/socio/logia/terapia internazionale dell'alimentazione) ma è sicuramente parente di quei vezzi e di quelle strane idiosincrasie di cui ho parlato finora.

Insomma, siamo uno strano paese: abbiamo una delle cucine migliori al mondo ma non siamo assolutamente in grado di apprezzarla e valorizzarla nella varietà dei suoi ingredienti e delle sue preparazioni. Nota: non sosterrò mai che quella italiana sia la cucina migliore del mondo (come la maggioranza degli italiani farebbe): non mi abbasso a stupidi confronti da quattro soldi tra eccellenze gastronomiche come la nostra cucina, quella cinese, quella indiana o quella francese, ma siamo sicuramente tra i migliori. Abbiamo una produzione vitivinicola che finalmente ha nel mondo il posto che merita pienamente, avendo raggiunto altre produzioni di livello qualitativo altrettanto alto che fino a cinquant'anni fa ci pisciavano in testa.

Eppure ci stiamo ancora a fare seghe mentali, sempre basate su considerazioni bassamente campanilistiche, se il metodo Charmat usato in Veneto per il Prosecco sia oggettivamente migliore o peggiore di quello classico o champenoise (sicuramente più oneroso dal punto di vista produttivo) usato invece dai produttori più fighetti della Franciacorta. Domandarsi se una mozzarella di bufala sia in assoluto migliore o peggiore di un buon Camembert è semplicemente un nonsenso, interrogarsi se sia oggettivamente meglio un piatto di riso basmati al curry o un pollo tandoori di uno spaghetto alla bottarga è risibile, chiedersi se un Cabernet della Napa Valley possa competere con il suo cugino veneto è inutile e superfluo.

La bellezza della varietà del mondo e dei suoi abitanti risiede proprio nella differenza senza confronti, e come l'ecosistema terrestre è bello perchè composto da milioni di specie viventi diverse, il mondo del cibo e delle bevande è bello perchè ci sono milioni di varianti di cibi e bevande eccellenti. Il vero nemico è l'omologazione, con cui purtroppo ci hanno minacciati già da tempo MacDonald's, Cocacola, KFC e Starbucks. Minacce che fortunatamente non hanno (per ora) vinto nonostante tanto successo abbiano avuto e continuino ad avere su vasti strati della popolazione mondiale.

Continuerei questo pensierino facendo paralleli tra il settarismo/campanilismo sul cibo con altri vizi strettamente imparentati (secondo me) perchè derivano tutti da un problema comune. Il nazionalismo (di cui il campanilismo è la sublimazione) è l'anticamera del razzismo, uno dei vizi più immondi dell'umanità, perchè siamo la stessa specie, lo stesso animale, ed il concetto di razza non è scientificamente applicabile (la facile dimostrazione di questo teorema la lascio ad un pensierino successivo). Il guardare al proprio ombelico come centro del mondo, il considerare l'altro, l'alieno se non come nemico almeno come sospetto tale, e comunque probabilmente inferiore è l'anticamera del razzismo, quello che Paola Egonu denunciò pochi mesi fa.

Se dico che i pomodori di Tricarico o di Cirò marina sono i migliori del mondo non vedo perchè non dovrei sostenere che le persone di Tricarico o di Cirò marina sono le migliori del mondo, e tutti gli altri sono esseri inferiori (esagero, naturalmente, il concetto, ma pensateci su). L'apertura all'altro (popolo, cucina, paesaggio, speculazione intellettuale) è esercizio facile da osannare, ma difficile da attuare. L'attenzione alle reazioni vere del proprio corpo (in questo caso il palato, la lingua, le narici), il tentativo di slegarle dal condizionamento dell'abitudine, del noto, l'apertura positiva e non prevenuta verso il nuovo e l'ignoto: questo è ciò che ci dovrebbe guidare quando assaggiamo qualcosa di diverso, sia esso il piatto capitatoci per caso sul tavolo di una trattoria di Bikaner o la tartina proposta dal vicino di casa in un tentativo di approccio, profferta di empatia veicolata dal gusto e dall'olfatto.

Ma gli italiani non sono così, nella loro maggioranza: anche quelli che si professano aperti al mondo poi bramano il caffè ristretto in tazza tozza del bar sottocasa, perchè come il bar sottocasa non lo fa nessuno, e la tazza tozza è sicuramente meglio di quella snella. Gli italiani sono quelli che la cucina cinese vabbè, gli involtini primavera sò mangiabbili ma il resto fa poprio schifo (la storia dei nidi di rondine ve la racconto un'altra volta). E se mi piace fare il sub e voglio andare a vedere i fondali marini delle Filippine con le loro meraviglie esotiche poi però a pranzo devo avere gli spaghetti cucinati da un italiano (esperienza puntuale e diretta, su cui potrei fare nomi e cognomi).

Anche qui mi verrebbe un paragone con quello che pensava e diceva la mia povera mamma, che ho amato e detestato per ragioni simili e diverse. Ma lascio perdere, sia perchè non voglio farla agitare nell'urna più del necessario, sia perchè si è fatto tardi, e le considerazioni politico/escatologgiche le rimando a data da definirsi.

FG

P.S. Questo pensierino è dedicato al ricordo dell'ing. Pancotti, grande gourmet quando esserlo non era di moda, che oltre 50 anni fa guidò i miei primi passi ed ispirò le mie successive curiosità sui sentieri della buona cucina. Personaggio singolare che ho amato anche ma non solo per questa sua passione, che trasmetteva volentieri alle persone che conosceva e a cui voleva bene. Sono sicuro di essere stato tra queste, e gliene sono grato.